Un insegnante, si sa, non fa, ma osserva.

Sta fuori dagli esercizi che eseguono i propri allievi e questo non perché non abbia nulla da imparare, ma perché da ‘dentro’ il coinvolgimento (mentale ed emotivo) sarebbe tanto e tale da non permettergli di vedere, osservare, capire, guidare, scoprire, rilanciare.

Eppure, nella nostra Scuola, noi insegnanti ci mettiamo in gioco insieme ai nostri allievi spesso – anzi, spessissimo! – e questo per più motivi.
Primo, perché ci divertiamo da matti. E’ come quando vai a una festa e a un certo punto ecco quella canzone che proprio non riesce a farti stare fermo. Devi ballarla!
A volte, con qualche esercizio, a noi accade esattamente così. Si sprigiona nell’aria un’energia tale e il senso di appartenenza l’uno all’altro è talmente forte, che ti prende una voglia irresistibile di buttarti nella mischia. E poiché abbiamo la fortuna di lavorare sempre in coppia, ecco che uno dei due insegnanti può così tranquillamente dire all’altro “Io lo faccio con loro. Stai tu fuori a guardare, ok?”.
Anche i nostri ragazzi si divertono molto quando le loro insegnanti passano dall’essere “arbitri” all’essere “giocatori”, così finalmente possono vederci all’opera e, magari, anche coglierci in fallo… E questo non per deriderci, ma per umanizzarci e poterci sentire in qualche modo più vicine.
Noi scherzosamente li provochiamo con frasi del tipo: “Non vediamo l’ora di distruggervi tutti!”, oppure “Non siete di certo avversari degni di noi” o ancora “Questo sì che si chiama Vincere Facile”. Loro ridono, ma nello stesso tempo si galvanizzano.

Lunedì scorso, forse perché non vedevo i miei ragazzi da esattamente venti giorni, questa “frenesia” mi ha posseduta fin dal primo esercizio, quello del samurai.
Un esercizio che attiva l’energia e la concentrazione dell’attore; tutto all’interno dello scenario di una battaglia ‘uno-contro tutti’ molto divertente.
In cerchio, con una sequenza di gesti prestabilita, gli allievi-samurai si sfidano senza pietà e, ovviamente, ‘vince’ chi è più concentrato.
Io decido di mettermi in mezzo ai maschi, che facendo gruppetto tra di loro, tendono più facilmente a distrarsi. Sapendo di avermi vicina, la loro attenzione è evidentemente più alta. In generale, quella di tutto il gruppo lo è, ora che sanno che a giocare con loro ci sono due “campionesse”.
Sappiamo perfettamente che ci osservano con attenzione; è naturale… Dobbiamo, quindi, dare l’esempio e affrontare il gioco come se fosse reale. Innanzitutto, pensando che in una vera battaglia la posta in gioco è la più alta che si possa immaginare: la vita!

Finito un primo giro di prova per ricordare le regole, il gioco ha inizio e in meno di un secondo dismetto gli abiti della maestra e indosso quelli di me bambina, di quando con mio fratello giocavo a Karate Kid imitando le “mosse” del giovane Daniel e saltando a pie’ pari tutto la fase di “dai la cera” e “togli la cera”.

Daniel: “Crede davvero che io potrei vincere?”
Signor Miyagi: “Non ha importanza. Che insegna a noi l’uso del pugno? Niente, è solamente un fatto di vita. Vincere o perdere non conta, se farai un buon combattimento sarai rispettato, e dopo nessuno ti disturberà”.
Daniel: “Ma in caso contrario mi seppelliranno!”
Signor Miyagi: “In ogni caso il problema è risolto!”.

“HONDAAAAA!!!!!”. Un grido di guerra mi risveglia dal mio deja-vu. La battaglia è iniziata. Ho giusto il tempo di corrugare la fronte e di scegliere il punto che fisserò nel momento in cui affonderò il colpo ferale sull’avversario. Quelli al mio fianco, infatti, li “colpisco” senza guardarli; quelli frontali, invece, li guardo dritti negli occhi per intimorirli.
Dopo pochissimo, più della metà del gruppo-samurari è ormai fuori dal cerchio. Ma ecco che in uno di quei momenti in cui per pochissimi secondi viene issata la bandiera bianca – ovvero quando il gioco si ferma per permettere a uno dei giocatori di uscire dal gioco – commetto un errore da principiante: mi rilasso. Anziché ‘sospendere’ l’energia, congelarla sì – ma ancora pulsante! – in un apparente posizione di stasi, vado in ‘Off’. Come un robot che si spegne, stacco la spina. Senza rendermene conto, nell’angolino più buio e nascosto del mio inconscio, mi sono evidentemente detta: “Ormai è fatta”.
Nemmeno il tempo di realizzare che mi sono appena scavata la fossa con le mie stesse mani e tutto accade in attimo.

“HONDAAAAAAA!!!!”.
Io e Gabriele, che siamo l’uno accanto all’altra, ricominciamo la battaglia nello stesso istante; entrambi, cioè, carichiamo e lanciamo il gesto d’attacco contro l’avversario accompagnandolo con l’urlo del guerriero, simultaneamente.
E questo è un errore. Un errore fatale. La sovrapposizione, intendo, perché significa mancanza di ascolto.
Colpo di scena, quindi: la maestra ha sbagliato…
Io sottolineo serenamente e pubblicamente il mio errore. “Mi sono distratta”, ammetto. Poi io Gabriele ci guardiamo, allarghiamo le braccia e abbandoniamo il gioco.

Terminata la prima sfida e decretati i vincitori, facciamo ricominciare una nuova “gara”.
Questa volta però, io e Assunta alziamo l’asticella della difficoltà: i samurai “morti” si trasformano in “spiriti dannati” che vagano sulla terra per distrarre i nemici ancora in battaglia.
A un certo punto sento dietro le mie spalle uno spiritello dispettoso (forse Niccolò) che comincia a parlarmi all’orecchio. Io, ovviamente, per rimanere concentrata, mi ripeto a mo’ di mantra “non devo ascoltarlo – non devo ascoltarlo – non devo ascoltarlo”, e questo nonostante la curiosità strisci dentro di me come il serpente della tentazione.
Intanto, la confusione intorno è tanta, poiché ormai la maggior parte dei samurai sono diventati anime vaganti. Il gioco quindi si fa sempre più duro. Tengo l’energia alta. “Devo resistere, isolarmi, fissare il punto e… colpire!”.
Ma ecco che mentre muovo le braccia in avanti per fare la “mossa” del KO-HO (il lancio di una immaginaria palla infuocata che parte dal proprio stomaco per poi dirigersi velocissima contro l’avversario) non so come, con una specie di effetto catapulta lancio nell’etere anche la mia collana!
Con un solo gesto, riesco infatti a: 1) sfilarla completamente; 2) farla volteggiare sulla mia testa 3) e infine – dopo un doppio avvitamento – farla precipitare alle mie spalle.
E qui accade la vera magia: nel gioco teatrale, un’innocua collana incredibilmente si trasforma in una vera e propria arma di distrazione di massa. L’allieva colpita (non dalla collana, ma dall’immaginario colpo “ko-ho” che ho stagliato con forza verso di lei) rimane talmente basita da quanto la sua maestra possa essere maldestra (seppur con grande virtuosismo e anche con una certa eleganza), che non risponde prontamente al ”colpo” e viene così immediatamente eliminata. Lei però ride a crepapelle, così come tutti gli altri. Gabriele è quello che se la gode più di tutti. “Ma come hai fatto???”, mi dice piegandosi in due.
Assunta interviene per riportare l’ordine e il gioco riprende. Gabriele però continua a ridere, non riesce proprio a riprendere la concentrazione. Io allora gli lancio uno sguardo d’intesa e poiché durante l’esercizio non si può parlare, decido di usare la telepatia. E con la stessa voce del Signor Miyagi gli dico: “Se in combattimento perdi la concertazione, sei carne morta!”.

Lui allora comincia a lottare con se stesso. Segue le traiettorie dei colpi, cercando di cacciare dalla sua mente l’immagine di me che faccio roteare come una sciabola la collana sulla mia testa. Quando viene colpito rilancia, ma con minore energia rispetto a prima, perché la sua risata (che ancora continua a risuonargli dentro) improvvisamente emerge, soffocandone la voce.
Piano piano si riprende, ritorna serio, e dopo pochi minuti la battaglia è terminata. Tra i vincitori anche io e Gabriele. Ora finalmente può sbottare. Ritorna a chiedermi ridendo “Ma come hai fatto???”, mentre batte cinque sulla mia mano, poi sulla mia spalla e infine mi abbraccia, come si fa tra compagni di squadra che hanno superato, insieme, un momento difficile.

Io sono felice, oltre che divertita. Mi piace l’energia che si è creata, sentire la relazione e la fiducia che si saldano. Anche Gabriele e gli altri lo sono.
E così, quando più tardi becco più volte Gabriele chiacchierare con un compagno durante un esercizio e mi ritrovo così costretta a chiedergli di abbandonare il gioco, lui è sereno. A differenza delle altre volte, infatti, non mette il broncio e si va a sedere a terra, al bordo della sala, proprio vicino a me. Sento spesso il suo sguardo addosso. Io ricambio. Lui mi sorride e io gli sorrido. Vuole essere sicuro che anche se sono tornata ad indossare i panni della maestra e non sto più “giocando” con lui, il mio spirito è restato quello della compagna di squadra con la quale ha condiviso la “sconfitta” prima e il sapore della “vittoria” poi.
Vuole sentire che esattamente come prima – quando cioè non riuscendo a smettere di ridere, io ho cominciato a guardarlo non con aria di rimprovero, ma di incoraggiamento – anche ora la mia richiesta di uscire dall’esercizio, non è una punizione, ma la concessione di una pausa.

Ora è lui a parlarmi telepaticamente e il suo sguardo sorridente sembra dirmi: “Ho capito, Signor Miyagi. Devo ritrovare la concentrazione. Solo così potrò giocare la mia partita dando il meglio di me”.