1)Una domanda sulla narrazione. In un tempo in cui la parola è arrivata sulla bocca di tutti, nel tempo in cui sul web tutti stanno cercando di imparare a scrivere storie acchiappaclik, ci racconti – dal punto di vista di chi narratore lo è davvero – cos’è e a cosa serve imparare a narrare e quanto bravi bisogna essere per essere davvero ascoltati? 

Per rispondere alla prima domanda racconterò di me e del mio cappuccino di stamane.
Sono seduto al tavolino de “L’Antico Caffè della Piazza”, accogliente, caldo di legni intarsiati, di volute, di sbalzi e di specchi. Davanti a me, al tavolo, è seduta una famigliola: madre, padre, figlia grandicella e figlio, un piccolino rotondetto che ha imparato a camminare da poco. Il bimbetto, dopo aver giocherellato un paio di minuti con il tovagliolo, si divincola, scivola giù dalle ginocchia della mamma e parte alla conquista del salone con passo incerto. Cammina barcollando, a braccia appese, tra mille cose, tutte da conoscere, da toccare, forse da ciucciare. L’esploratore incontra e tocca ogni cosa, le scatole di vino pregiato in esposizione, i cesti di caramelle bio artigianali, il porta ombrelli fiorito di manici, il bancone delle paste troppo alto, le gambe dei tavolini e quelle degli avventori più a portata di mano, due vasi di Ficus Benjamin davanti alla vetrata, che da tempo un bimbo che lo venga a torturare.
Quello su cui il pargolo è atterrato da qualche tempo è un mondo complesso, ricco, sorprendente, misterioso, e come tutti i cuccioli fanno, il piccolino s’inoltra misurandosi con tutto ciò che il caso offre.
Dopo tanto vagare si ferma di colpo, qualcosa l’ha irrimediabilmente attratto, si vede, è pervaso dallo stupore. Davanti a lui, avanza morbidamente un gatto bianco. D’istinto il bimbo stende la manina, allunga il ditino e cerca con lo sguardo qualcuno a cui raccontare tanta esaltante meraviglia, qualcuno cui additare la Bellezza dell’Universo concentrata in quell’essere stupendo che se ne sta lì, a un passo, pronto a farsi carezzare. Il piccolo segnala a mamma e papà la sua scoperta. Appena la mamma gli mostra attenzione il bambino esclama, vocalizza come gli è possibile. Non dispone delle parole per dire l’incanto che sta vivendo, per descrivere quel miracolo con la coda che gli è davanti, non possiede le parole ma già racconta: è letteralmente colto dall’impeto narrativo e intesse due minuti di grammelot, deliziosi per le mie orecchie. Un racconto è sgorgato violentemente dall’animo incantato di un bambino. Dunque, l’attitudine alla narrazione è un tratto antropologico costitutivo dell’Essere umano, questo è fuori di dubbio. Essa viene prima della competenza linguistica. Appartiene al grado più profondo della Natura umana. Ecco cos’è per me la Narrazione: l’impeto primordiale che condivido con i miei simili, da quando sono nato. In questo senso la Narrazione, prima di essere un’Arte, è una condizione di necessità a cui nessuna persona è estranea.
Poi viene la scoperta di un buon racconto. Anche in questo caso, va detto che ciascuno di noi intuisce da subito la fascinazione di una sintassi curata, di uno stile narrativo, della ricchezza lessicale, del repertorio espressivo che caratterizza i buoni raccontatori.

Rispondo alla seconda parte della domanda mettendo i piedi nell’Arte pittorica. Imparare a narrare serve per penetrare la realtà e nutrirsene. Serve ad elevarsi esattamente come serve imparare il disegno dal vero. Tutti sappiamo tratteggiare una casina col camino, il cielo, le nuvole, il sole, una macchina di profilo con due ruote, un fiume, un ombrellone. Questo modo basico di disegnare è l’equivalente del linguaggio del quotidiano, necessario e sufficiente a sopravvivere e a relazionarsi. Esistono poi sofisticazioni della competenza linguistica notevoli, eccelse, in cui le parole sono distillate e perfettamente aderenti alle intenzioni comunicative. Ma la narrazione, intesa come fabulazione d’Arte è altra cosa, e, a dirla tutta, è così autonoma e dirompente che può esistere anche quando il narratore non sia scolarizzato. Tra i migliori narratori sono pastori, carbonai, operai metalmeccanici, falegnami, contadini, sartine, olivare e stiratrici. Se il narratore è capace di addentrarsi nella storia attraverso le parole di cui dispone, si compie comunque il “miracolo”: egli evoca immagini e diviene servo della storia: essere al contempo fondamentale e superfluo. Fondamentale perché le sue parole sono cantate da lui medesimo in quel preciso momento, ma superfluo perché le immagini della novella una volta evocate dominano la scena e lo fanno scomparire agli occhi dell’osservatore. Questo sanno fare le narratrici e i narratori di tutti i tempi: disegnare rapidamente e scappare via. Ma per farlo c’è bisogno di destrezza e di folle abbandono all’Arte. Per questo dico che la pratica della Narrazione è simile all’’esercizio del disegno dal vero, Arte in cui in cui il disegnatore rincorre le forme che gli vengono poste a pochi metri di distanza. Il disegnatore compie quindi un esercizio di autocostruzione, personalissimo, intimo. Cerca e raffina la sua coordinazione tra la visione, l’astrazione e il gesto della mano che conduce il carboncino sul foglio. Nella sua mente, il disegnatore crea un repertorio di linee e di gesti, di chiaroscuri, di masse, di proporzioni ricorrenti, di superfici, di prospettive, di intrecci e di sfumati. Il pittore arriva man mano ad una sintesi mirabile tra lettura del reale (o anche del surreale sognato) e il suo proprio gesto pittorico che costruisce l’immagine schizzata sul foglio. Per fare ciò il disegnatore deve consumarsi nella reiterazione, nella ricerca delle varianti, nell’imitazione, nella caratterizzazione: è proprio il percorso artistico del fabulatore. Ma il disegnatore non riproduce solamente ciò che vede. Egli si appropria della forma proprio perché la disegna mille volte in mille fogli, la decostruisce e la ricompone. Così ne penetra la struttura, la include nel suo repertorio di gesti e segni, nella mente e nella mano, e matura trasformandosi nel tempo assieme alla sua Arte. Il Narratore, alla conta dei fatti, non fa la stessa cosa con le parole e i gesti?

Quanto bravi bisogna essere per essere ascoltati?

Fermo restando che per il narratore esistono regole e modalità, trucchi ed esercizi, qualità personali innate e caratteristiche da scoprire, difetti e meraviglie. A chi si avvicina all’Arte della Narrazione orale si può consigliare di essere semplicemente onesto e sincero artigiano di se stesso. È la dedizione che viene apprezzata da subito nel neofita, la scelta dei suoi soggetti, la chiarezza di quella scelta e la coscienza del proprio lavoro, non tanto la raffinatezza del narrare; quella viene col tempo. Perciò si può essere bravi e apprezzati da subito, in infinitesimi tratti di narrazione, prima che in monologhi estesi. Purchè si tratti di un lavoro onesto, intenso. Dunque il problema non è l’essere ascoltati o meno ma l’essere abbandonati alla Bellezza del racconto o esserne banali, forzosi esecutori in cerca di consenso.

2) la seconda domanda è sul tuo percorso artistico. Quando e come hai deciso che avresti fatto del tuo corpo e della tua voce i tuoi strumenti per il tuo lavoro per tutto il resto della tua vita? Ci piace tanto raccontare e conoscere  percorsi formali e informali di tutti i nostri amici artisti… 

Sarò più breve, ora.
Il mio non è stato un percorso lineare. Si è interrotto in diversi momenti fino al 1991, anno in cui la narrazione orale e la scrittura di favole e novelle teatrali è divenuta per me una via professionale. L’esercizio del racconto orale l’ho coltivato sempre, fin da quando ero piccino. Racconterò il più antico ricordo della mia Arte. Ho avuto il mio primo ingaggio da contastorie a Perugia, all’età di dieci anni. Quella sera, a casa di amici dei miei genitori, fui messo a guardia di sei o sette bimbetti pannolonati, sparsi sul lettone matrimoniale. I nostri rispettivi genitori erano in sala da pranzo impegnati, in una barbosissima, fumosissima, riunione politica. Erano gli anni 70 del secolo scorso, i miei genitori tramavano la rivoluzione proletaria mentre io intrattenevo la prole dei rivoluzionari.
Il successo riscosso quella notte (li addormentai tutti a suon di ninne nanne inventate a braccio) mi valse tanti complimenti e un contratto di tre anni con la cellula perugina di Lotta Continua. Replica dopo replica, affinai l’arte affabulatoria per quietare la rivoluzione almeno in camera da letto. Molte di quelle chiavi affabulatorie mi sono rimaste dentro. Ho imparato che ci sono storie per dormire e storie per restare svegli fino al mattino. Imparai anche a cambiare i pannolini, e quelli degli anni 70 non erano facili da maneggiare.

3) Abbiamo deciso di mettere insieme questo percorso di formazione NET-Acting con tutti quei professionisti che hanno lavorato e che lavoreranno con la nostra compagnia. Perché in teatro funziona sempre così: si riconoscono anime affini e poi non si smette più di volersi bene. Ti ricordi la prima volta che ti abbiamo chiamato per venire ad abitare i nostri boschi lucani? Pensiamo tanto che Umbria e Basilicata abbiano tanto in comune, di sicuro L’Albero e Mirko Revoyera ne anno più d’una...

Per me la Basilicata è cominciata negli anni della fanciullezza, con Lagonegro, le colonne d’Ercole dell’Autostrada del Sole negli anni Settanta. Nel lungo viaggio verso il paesino calabro di Sciconi, dove passavo le vacanze estive dai parenti, sapevamo che a Lagonegro l’autostrada s’interrompeva e avremmo abbandonato il rassicurante spartitraffico colorato di oleandri per  immetterci nelle strade nazionali attraverso le quali arrancare nell’ultimo faticosissimo tratto di strada; salutavamo quel breve tratto di Basilicata mentre l’auto marciava col portabagagli stracarico di masserizie vacanziere: pinne, secchielli, vestiti, sgabelli da spiaggia, salsicce di Norcia per la zia, regali per tutti; portavamo via mezza casa di cose e ci trovavamo costretti a viaggiare per dodici ore con oggetti da tenere perfino sulle ginocchia. Sotto il sole agostano, chiaramente. Follia pura!

Poi finalmente, a distanza di molti anni, la Basilicata è tornata nella mia vita, alla grande! È stata lo scenario d’incanto di una mia storia d’amore viaggiante e travolgente, ha incorniciato quei giorni di mare e di paesaggi stralunati, ha profumato di origano il ricordo, sulla montagna della città albanese di Civita.

Quando, pochi anni fa, sono stato invitato a Melfi da Vania, Fiorella, Alessandra, ho sentito che la Basilicata stava reclamando un mio ritorno e finalmente un incontro meno fuggevole e più ricco.

Arrivo a Melfi. Incontro i ragazzi de L’Albero alla stazione dei bus. “Ti facciamo vedere Melfi e poi andiamo in albergo.” Salto in macchina e come in una fiaba moderna ricevo il mio elemento magico da un’autentica fata. Al semaforo ci fermiamo ad aspettare il verde. Una anziana signora mentre attraversa la strada nota nell’automobile i due giovani e me sporto dal finestrino con la mia barbona. Si accosta, porta le mani alle guance e mi fa: “Che séte bello! Tenete una barba rispettosa, come a San Giuseppe! Dio ve benedica!”

Ringrazio come posso, restituisco la benedizione ma s’è acceso il verde, dobbiamo muoverci. Sono commosso e oramai, dopo questa accoglienza tenera e misteriosa mi sento pronto a qualsiasi prova, come l’eroe di Propp predestinato alla vittoria.

Le donne de l’Albero mi attendono, per l’incontro operativo di preparazione dello spettacolo. Mi trovo davanti a tre vivacissime menti. Parliamo la stessa lingua, e le idee cominciano ad inseguirsi, ci togliamo le parole di bocca. La gioia compositiva cresce assieme alla sintonia e in pochissimo tempo abbiamo tutte le idee chiare. Mi caricano in macchina e usciamo dalla città. Dopo qualche curva lasciamo la periferia; la terra lucana si mostra fra valli e pianori, e un massiccio che domina la strada. Poche altre curve e ci infiliamo nel parco del Vulture. Un altro mondo, un mondo a parte, un mondo incantato. Sono letteralmente stordito dalla meraviglia. Raggiungiamo i laghi e laggiù i bambini cominciano a raggiungerci. Prepariamo il percorso con un laboratorio di giochi, materiali di scarto riusati per fare cappelli folli, e avventurosi percorsi di pulizia dei sentieri, e i giovani attori in attesa dietro i tronchi, pronti a sbucare fuori con le loro performance teatrali, e poi favole, tante favole, lungo il percorso, e giù al lago, tutti seduti sul pratone. Giorni memorabili di vita ben spesa. La Basilicata, per me oggi, è la forza vitale di queste persone belle e colorate come farfalle svolazzanti nella foresta cupa del Vulture.


 Per info e iscrizioni scarica la: Brochure