Perché proprio ‘Alice’?

Scopri “Non chiamatemi Alice” la versione di “Alice nel paese delle meraviglie” della compagnia teatrale L’Albero.

Prenota il tuo viaggio per lo spettacolo del 9 agosto a Melfi (PZ) o per quello del 12 agosto a Tito (PZ).
Telefono: 349.82.43.232


Perché proprio ‘Alice’? Nel senso: perché raccontare questa favola e non un’altra?

Di certo, Alice rappresenta un passaggio, e come tutti i passaggi è un valico fra epoche, e come tutti i valichi contiene già in sé una fortissima drammaturgia.
La fascinazione di ‘Alice’ non la scopriamo adesso, ma è l’accento posto sul linguaggio multiplo la chiave della nostra reinterpretazione.
A noi piace pensare che certi elementi siano metaforici e che solo la metafora, alla fine, basti a sé stessa.
Ecco perché ‘Alice’ rimane un viaggio, ecco perché Alice – la bambina caduta nella tana di un coniglio – vada cercata, ecco perché ogni passo può essere dato in direzione di un personaggio, o meglio di un significato.
‘Non chiamatemi Alice’ è uno spettacolo che permette a chi lo guarda di scegliersi un quadro, una situazione, un colore violento o più tenue, una riflessione oppure no, una favola – l’ultima della giovinezza, magari, e la prima dell’età adulta – da farsi raccontare.

‘Alice’ non è un’esca, non vi sta tendendo una trappola, solo una mano.
La memoria che abbiamo del libro e dei film non diventa mai un impedimento né un termine di paragone, ma al contrario aumenta le curiosità, anche quella morbosa che può suscitare il racconto di un personaggio preso dalla parte dell’ombra. Si sa che nella letteratura nulla è come sembra, e che gli scrittori rifuggono in molti casi le contrarietà o le paure creando figure ideali che agiscono in un mondo costruito a misura dei desideri di chi scrive.

Il punto è: e se invece si muovessero in un mondo costruito dalle paure?
così, ad esempio, la Regina di Cuori è una tagliatrice di teste per psicologia; un the viene apparecchiato per dimenticare; un gatto (o forse due) sorride per rivalsa. La storia che c’è dietro alla scelta di ‘Alice’ quale soggetto drammaturgico è forse una specie di esorcismo del sacro terrore del disincanto.
Ecco sì: il disincanto è il soggetto di scena. Un po’ perché è una tappa obbligata nel passaggio verso l’età adulta, un po’ perché il disincanto stesso venga sdoganato. Questa rivisitazione di ‘Alice’, dunque, conduce nei sobborghi e nelle periferie, non banalizzando mai la vita ai margini che vi si svolge. Qui, il Paese di Alice contiene sette agghiaccianti meraviglie, ma soprattutto nuove, straordinarie, impensate. Ci appartengono, anche se le abbiamo allontanate, e guardarle negli occhi è lo scopo del viaggio.
Alla fine, si attende Alice come un senso di liberazione, come colei che ha la chiave, come colei incolpata di aver creato una riflessione tanto prepotente. Alice non si fa negare, certo, ma i suoi colori lividi nascondono due volti. Ci si aspetta di ritrovare in Alice il senso dell’orientamento, dopo essere passati in mezzo alla nebbia di un Brucaliffo o nel vortice di una Maratonda senza uscita, ma se Alice, alla fine, non è quella che ci si attende, è inutile continuare a chiamarla, dato che un nome, in fondo, rimane una convenzione, e se non c’è consapevolezza che per ogni nome esiste una luce e un’ombra, non arriverà la concessione alla luce né l’energia per uscire dall’ombra.

Se avrete compiuto bene il viaggio, Alice ve lo dirà e vi fornirà ogni spiegazione del vostro essere lì, e anche del vostro esservi persi. Sta a voi farvene confortare o terrorizzare.


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