Alice: troppo disegnato per essere vero

Scopri “Non chiamatemi Alice” la versione di “Alice nel paese delle meraviglie” della compagnia teatrale L’Albero.

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TROPPO DISEGNATO PER ESSERE VERO: ‘ALICE IN WONDERLAND’ E’ IL LIBRO PIU’ ILLUSTRATO CHE C’E’

All’inizio delle sue avventure, Alice è seduta in giardino e ha tra le mani un libro. Con un moto di stizza, Alice afferma che la mancanza di illustrazioni in un libro è assolutamente insopportabile: una reazione normalissima per un bambino, e soprattutto per una bambina come Alice, che dell’immaginazione – di lì a poco – farà un best seller.
Di contro a questo primo tratto della bimba che seguì il Bianconiglio, ‘Alice nel Paese delle Meraviglie’ è tra i libri più illustrati in assoluto ad opera di illustratori professionisti: il contrario, a ben vedere, sarebbe insopportabile. E’ il modo più immediato per rendere sopportabile lo stesso Paese delle Meraviglie, troppo immaginifico, troppo complesso, troppo multidimensionale per essere ridotto a un volo fantastico. Così, dal 1864 – anno di pubblicazione del libro – in centinaia si sono cimentati a dare un contorno ad Alice e al suo Paese. Disegni che hanno sempre preteso di essere Alice dal momento che Alice sembra essere una specie di diritto acquisito con l’infanzia.

Il primo disegnatore di Alice si chiamava John Tenniel, conosceva Carrol e aveva sentito parlare di Alice Liddell, figlia del decano del Christ Church College di Oxford, presso cui Carroll insegnava matematica. Alice Liddell aveva dieci anni all’epoca in cui per la prima volta un racconto di Alice prese forma, e passava per essere una creaturina molto intelligente e fin troppo vivace per l’era vittoriana. Ma soprattutto, una frangia di capelli inequivocabilmente scuri le spioveva sulla fronte, almeno stando alla fotografia che di lei ci è giunta. Tenniel era un illustratore molto quotato all’epoca e magari per questo si prese la totale libertà di ritrarre Alice bionda, eludendo perfino il suggerimento di Carroll, che per ispirarlo gli aveva fatto avere il ritratto di un’altra bambina, Mary Hilton Badcockpour, pure bruna. Quante Alice dunque? La piccola Liddell, con cui Carroll trascorreva molto tempo e a cui aveva raccontato la storia di una bambina che cade nella tana di un coniglio, durante quella gita in barca sul Tamigi, il 4 luglio del 1862; la bambina della foto, che ci si aspettava diventasse Alice a tutti gli effetti; e la Alice da Tenniel in giù, per cui Carroll credette a un errore quando visionò le prime tavole: troppo grossa la testa, troppo piccoli i piedi. Il punto era che ormai era troppo tardi: Alice era già diventata bionda e tale sarebbe andata avanti, pur attraversando gli stili.

Ai primi del Novecento, circolava un’Alice bruna che voleva rendere giustizia alle bambine che Carroll aveva in mente, ma la potenza del primo impatto non perdona mai e negli anni Cinquanta furono i disegnatori Disney ad assestare il colpo di grazia e a definire la bambina inequivocabilmente bionda: l’icona era pronta.

E gli altri? La continua evoluzione grafica dei personaggi incontrati da Alice restituisce il carattere universale del personaggio ma anche della storia. Come dire: il Paese delle Meraviglie è territorio comune, di cui ognuno può disegnare la sua. La versione della Duchessa che circola negli anni Dieci del XX secolo, ad esempio, è meno spaventosa di quella che disegnò Tenniel originariamente. Martin Gardner, uno dei massimi studiosi dell’opera di Carroll, affermava che “un’occhiata al ritratto della Duchessa Brutta del pittore fiammingo del cinquecento Quentin Matsys lascia pochi dubbi sul fatto che sia servito come modello per la Duchessa.” Anche il Cappellaio Matto giunge a noi con l’inflazione delle illustrazioni di Tenniel, che ne fece un personaggio dalla grossa testa ma ispirato a un estroso inventore di orologi bizzarri di Oxford che usava portare grossi cilindri, secondo il suggerimento di Carroll stesso. Certo, le caratteristiche del Cappellaio hanno permesso agli illustratori di sbizzarrirsi più che mai, a partire dal suo nome e da quel che si usava dire nell’Inghilterra dell’epoca, e cioè mad as a hatter, matto come un cappellaio, in riferimento agli effetti che il mercurio usato per lavorare i tessuti aveva sul sistema nervoso. Da qui, le macchie arancioni quali aspetto sintomatico dell’avvelenamento da mercurio che compaiono sul viso di Johnny Depp, nella sua interpretazione del Cappellaio per Tim Burton.

L’infinita profusione di colori e di teorie scongiura la fine di un fenomeno che non si è esaurito nemmeno dopo centocinquant’anni, e la ricetta segreta appartiene a Carroll stesso, che per primo non descrisse mai nei particolari che aspetto avessero poi, il Paese delle Meraviglie e i suoi abitanti.


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