Mamma e insegnante: due ruoli inevitabilmente osmotici | Diario di una maestra

Da quando sono diventata mamma, oltre che come donna mi sento profondamente cambiata anche come insegnante. Nessuno più di uno gnomo di 3 anni, infatti, ti mette in discussione, nel bene e nel male. Lui ti osserva, sempre. E annota tutto, in un angolino magico e misterioso del suo cervello.Nessun gesto, anche il più banale, sfugge al suo sguardo scrutatore; nessuna parola sorvola inascoltata sopra i rumori e le voci di fondo; nessuna espressione del tuo volto ai suoi occhi sarà priva di significato. I tuoi pensieri più reconditi per lui sono palesi. Insomma, mio figlio mi ha portato alla conclusione che a quell’età si è dotati di superpoteri!E così a un certo punto (diciamo da quando ha cominciato a parlare) ho cominciato anche io a scrutarlo, osservarlo e ad annotare. In pratica, ho sviluppato un’arma altrettanto super-potente che si chiama  ‘ascolto’ : cosa sta pensando? cosa sente in questo momento? cosa lo ha fatto arrabbiare? cosa lo rende felice?

Insomma, in altre parole ho cominciato a rendere consapevole ciò che in una relazione facciamo in maniera inconsapevole: il gioco dello specchio ovvero vedere quale immagine di me io vedo riflessa in te.
Nella relazione madre-figlio, il meccanismo del rispecchiamento gioca un ruolo ancora più determinante. La psicanalisi ci dice infatti che fin dal primo giorno di vita i bambini costruiscono la propria identità specchiandosi nel ‘primo volto’ ovvero nel volto della madre. “Esplorando questo volto, il bambino fa esperienza del proprio”, ci spiega il buon Recalcati.

L’esperienza di educatrice teatrale prima e di madre poi, mi ha portata inevitabilmente a sperimentare quotidianamente questo meccanismo di osservazione e riconoscimento reciproco su cui si fonda non solo la relazione madre-figlio, ma – aggiungo io – anche quella maestro-allievo. E così spessissimo mi ritrovo a portare nella mia vita privata di mamma il mio essere pedagoga teatrale (disattivando così atteggiamenti e comportamenti di un sistema educativo antiquato e inefficace e di cui siamo eredi inconsapevoli) e nel lavoro il mio essere anche mamma. La maternità è infatti un’esperienza tale che non può non cambiare la percezione di te stessa e degli altri.
La riflessione sul gioco degli specchi, mi ha così portata a ri-pensare ulteriormente il mio approccio pedagogico e quindi il mio sguardo sui miei allievi, riflessione che ho provato a sintetizzare in queste tre nuove ‘regole’, da tenere sempre a mente (soprattutto nei momenti difficili!).

1. Portare pazienza.
Fino a una decina di anni fa non mi sarei mai definita una persona paziente. Un po’ per indole, un po’ perché da giovani, pazienti non lo si è mai (per definizione). ‘Educare’ però esige necessariamente l’essere pazienti. La pazienza tuttavia non va in questo caso intesa come “sopportazione più o meno rassegnata”, ma come un dono: il dono del tempo. Donare il tempo ai propri figli (e ai propri allievi) significa attendere senza esigere, senza domandare, senza anticipare.

2. Avere fede e riconoscere
Questa è una diretta conseguenza del portare pazienza. Si può essere pazienti solo se si ha fede nei confronti dell’altro: “io credo in te”, appunto.
E qui torniamo al concetto dello specchio. Un bambino si vede così come lo vede l’adulto. Mostrarsi arrabbiati, delusi, rassegnati, demotivati rispetto ad un risultato che tarda ad arrivare, farà irrimediabilmente sentire l’altra persona incapace nel migliore dei casi, inutile e stupida nel peggiore. In una sola parola non amabile. Riconoscere, quindi, trasformando il nostro sguardo da ‘qualcosa da guardare’ in ‘qualcosa attraverso cui guardare’. Ciò significa che il bambino non deve percepire il nostro sguardo come un segno di approvazione o disapprovazione, ma come il riflesso, appunto, di ciò che è e che potrebbe ancora diventare.

3. Fuggire da ciò che ‘ideale’.
Amare ciò che ci assomiglia – che riflette la nostra immagine narcisistica o che corrisponde a un un’ideale di perfezione – è un pericolo che è spesso dietro l’angolo. Per educare, bisogna però abbandonare il bambino-ideale e amare il bambino-reale nella sua unicità. Il teatro stesso richiede questo a un attore: solo se sarà disposto a mettere in gioco tutto se stesso – nella sua unicità, appunto – potrà rendere la sua interpretazione diversa da tutte le altre che lo hanno preceduto e ancora dovranno arrivare.

Insomma, proprio come accade con mio figlio, mi esercito a osservare e leggere me stessa attraverso il volto dei miei allievi: ciò che sento, che desidero, che amo, ma anche ciò che sono incapace di sentire o che temo o che odio, è riflesso nei loro volti. E viceversa, naturalmente.
E così, insieme, maestra e allievi, piano piano stanno imparando a non percepire gli altri come qualcosa di completamente estraneo a se stessi, ma inevitabilmente come una parte di sé.