Che cosa significa fare impresa in ambito culturale?

Giovedì e venerdì, a Padova, ho partecipato al seminario residenziale organizzato dalla Fondazione Fitzcarraldo e ospitato dalla Fondazione Cariparo per i vincitori del bando Funder35, a cui abbiamo partecipato con il progetto “SOS Teatro“.

Partirò dalla fine, dall’ultimo foglio che ci hanno consegnato e chiesto di compilare: il disegno di una mano all’interno della quale riassumere ciò che portiamo con noi, ciò che ha funzionato, ciò che non ha funzionato e ciò che vogliamo ricordare di questo seminario.
Ammetto di averlo compilato senza pensarci troppo, andando contro le manie di perfezionismo che mi contraddistinguono e lasciando che il calderone di incontri e pensieri di queste due giornate si esprimesse un po’ da solo, perché questo era tutto ciò che riuscivo a fare in quel momento: sapevo di aver bisogno di dormirci su e di lasciare che tutto sedimentasse nella mia mente.

E adesso, che ci ho dormito su ben 3 notti e che sono seduta alla mia scrivania di lavoro, davanti al mio computer, con accanto gli appunti e le note di quei giorni e con il cellulare rigorosamente spento, voglio provare a fare il punto della situazione e trasformare i pensieri e i ricordi in una riflessione.

Ripenso a quanto ho scritto di getto sul disegno di quella mano, a quello che a pelle sentivo di voler portare con me: la voglia di approfondire, di continuare a studiare, di cercare e incontrare altri partner con cui lavorare, il desiderio di seguire i progetti delle organizzazioni che ho incontrato e che ho trovato interessanti, ma soprattutto ripenso a una delle discussioni del WorldCafè di venerdì, quando ci interrogavamo su “cosa significasse fare impresa in ambito culturale”.
Una parola “impresa”, anzi due “impresa culturale”, anzi quattro “impresa in ambito culturale” che sono girate a lungo in questi due giorni.
E non è un caso considerando che “L’impresa culturale che cresce” è il payoff del bando Funder35. Di impresa culturale dunque si è parlato, si è immaginato, si è anche discusso, perché nessuno di noi (o quasi) era lì per rappresentare un’organizzazione che fosse formalmente riconosciuta come impresa, perché per certi versi la parola “impresa” sembra fuori contesto rispetto alla cultura, perché la cultura è un valore, il profitto un’altra cosa e a primo impatto tutti questi termini potrebbero non apparire affatto compatibili.

Ma sin da subito ho pensato che la domanda non fosse sbagliata o provocatoria, anzi, ritengo che fosse anche formulata in maniera quasi perfetta: “cosa significa fare impresa in ambito culturale?”. Non “come si diventa un’impresa culturale?”, “come si guadagna con la cultura?”, ma “cosa significa fare impresa in ambito culturale?”.
Mi piacciono tutte le parole che sono state usate “cosa significa”, “fare impresa”, “ambito culturale”. La domanda così posta credo voglia spingere non a trasformare le organizzazioni culturali necessariamente in imprese ma prima di tutto ci porta a riflettere su quali sono gli aspetti positivi caratterizzanti di un’organizzazione-impresa di cui dovremmo tener conto nel nostro lavoro culturale, nel nostro “fare quotidiano”.

E allora ho provato a individuare e riassumere quelli che secondo me sono gli aspetti positivi di una parola come “impresa”:

  1. Impresa come struttura organizzativa, come sistema complesso, come insieme di professionalità eterogenee, artistiche e non, che non si improvvisano, che continuano a formarsi e che mettono in gioco le loro differenti competenze per lavorare insieme a un unico obiettivo o progetto;
  2. Impresa come organizzazione che opera in un contesto, non un soggetto autarchico, chiuso nel suo mondo ideale, ma un soggetto che si trova all’interno di una rete di connessioni e relazioni con altri soggetti, un soggetto che quindi non lavora da solo, ma che cerca e crea collaborazioni e che è in ascolto dell’ambiente in cui lavora;
  3. Impresa come soggetto creatore di valore, laddove il valore non è una moneta, ma una risposta a dei bisogni (culturali o sociali) individuati dall’analisi del contesto;
  4. Impresa come soggetto sostenibile e quindi durevole nel tempo, come soggetto che si interroga continuamente sugli obiettivi da perseguire e sulle strategie necessarie per realizzarle. Un soggetto che non scompare alla fine di un progetto ma che permane e cresce insieme alla sua comunità di riferimento.

E allora se devo pensare ai punti di contatto tra L’Albero e un’impresa che opera in ambito culturale penso alle persone impiegate, ai lucani che hanno potuto scegliere di restare nella loro regione, ai lucani come me che invece vivono da un’altra parte ma che continuano a studiare e a lavorare per il territorio in cui sono nati, penso a tutti i nostri partner italiani ed europei che lavorano con noi a progetti come Get Close to Opera, Fake it till you make it, Silent City, penso alle occasioni di incontri e workshop che abbiamo provato a creare per i nostri allievi e per la nostra comunità. Penso ai vent’anni di azione sul territorio e a tutti quelli che sono certa verranno. E personalmente ne sono orgogliosa.

Tutto questo non ha forse un impatto culturale (e sociale, ed economico) sulla nostra comunità?
Io una risposta ce l’ho nella mia testa ma non voglio ancora esprimerla. Perché la riflessione conclusiva più importante dei due giorni di seminario a Padova è che così come sappiamo di lavorare in maniera professionale dobbiamo anche iniziare a rispondere a questa domanda in maniera professionale.

Ed ecco che forse non è un caso se una della parole che ho scritto più volte sul mio quaderno di appunti, sottolineata, cerchiata o evidenziata in tutte le maniere possibili è: “studio dell’impatto”.
Questo il buon proposito per il mio lavoro per L’Albero da oggi a venire, perché lo ritengo davvero il punto finale e il punto iniziale di un ciclo positivo, a cui ritengo sia giusto ed etico ispirarsi.

A presto con aggiornamenti sul nostro progetto vincitore di Funder35: #SOSteatro.