José Saramago scrisse che i tre mali dell’uomo attuale sono la non comunicazione, la rivoluzione tecnologica e la vita incentrata sul trionfo personale.

Sicuramente lo scrittore portoghese non si è sbagliato. La nostra epoca è caratterizzata dalla velocità e dall’efficienza che dominano le nostre tabelle di marcia giornaliere.
La tecnologia e il suo sviluppo, seppur assolutamente non demonializzabili, hanno assottigliato i tempi di lentezza e di vicinanza allargando quelli di solitudine facilitando così quella ‘cecità’ di cui parla Saramago: l’essere ciechi verso ciò che ci circonda. La cecità causata non dal buio ma dalla troppa luce, irradiata da una iper-realtà che in qualche modo ci isola dalla realtà stessa, lasciandoci soli al centro di un universo di cui non riconosciamo la realtà altra ma solo un ego allargato e diffuso continuamente esposto al giudizio inferto e subito.

Mi riferisco soprattutto ai social che sono divenuti parte del nostro stare al mondo, a cui non si può e non si deve sfuggire e a cui neanche si dovrebbe approcciare con uno sguardo paternalistico (sperando di non averlo io stessa scrivendo questa pagina di diario!).

Se penso ai social penso soprattutto ai nostri allievi che si trovano a crescere in questa rete allargata di relazioni che alle volte prende il sopravvento sulle vite di noi tutti.

I social network sono cosa buona, facilitano la comunicazione e i rapporti a distanza ma allo stesso tempo producono possibili vite fittizie basate su un accumulo di performance. Qualsiasi tipo di esposizione può esser vista e valutata come performativa e può far accrescere o diminuire la propria reputazione e visibilità.
E non è sempre facile scindere ed essere lucidi nel valutare quanto ciascuno di noi è immerso in questo vortice performativo all’interno del quale ciò che spinge a mostrare o anche solo a commentare è un trionfo del proprio profilo personale.
In questo contesto preferiamo filtrare il nostro io lasciando spazio solo al meglio di noi e della nostra vita. Debolezze e difetti vengono tenuti nascosti come tutto ciò che non è cool.

Soprattutto per gli adolescenti è facile trovarsi incappati nelle shitstorm, quelle raffiche di insulti gratuiti e schermati che tolgono valore a chi li riceve donandolo a chi agisce ferendo. È semplice e veloce lanciare giudizi e offese come veloce è il pensiero che li genera.
Spesso, dai nostri allievi, sentiamo parlare di fatti successi in rete e non è sempre facile risponder loro senza risultare paternalistici (l’ho già detto che il rischio è dietro l’angolo!). Credo, però, che la forza del teatro è proprio quella di provocare riflessioni senza impartire lezioni.

Il teatro può essere, secondo me, uno tra gli atti rivoluzionari che invertono questi parametri.
Attraverso il teatro i ritmi si fanno assolutamente lenti, pieni, coscienti. Nella lentezza si riconosce il proprio io e si riscopre la relazione con l’altro. Nella lentezza si lavora duramente per imparare, studiare, mettere in pratica e sperimentarsi. Nella lentezza si ascolta l’altro e ad esso si reagisce in una continua danza di emozioni e relazioni. 
In aula tutto succede qui ed ora, anche possibili scontri e controversie. In aula spesso esce fuori la parte più vulnerabile e meno costruita di ciascuno.
Il teatro provoca modi di esperire differenti e impone uno sguardo critico rispetto a ciò che stimiamo per dato. Il giudizio è sospeso, le riflessioni si ampliano, gli sguardi si intrecciano. I pensieri vengono agiti in scena.
E’ un processo lento e impegnativo quello laboratoriale.

Spesso il rapporto con i social è stato al centro di alcune improvvisazioni nate dai ragazzi e tra due risate e i colpi di scena abbiamo portato a casa nuovi e silenziosi spunti di riflessione.

Il laboratorio, inoltre, contiene in sé un processo fatto di step e alla fine di questo percorso è prevista una performance.
‘Il palco’ può accendere un sussulto di egocentrismo e la voglia di apparire i migliori ma, subito, ciò che primeggia, spazzando via ogni voglia di protagonismo, è l’armonia del costruire insieme.
Lavorare in gruppo presuppone un atto di umiltà. E non siamo noi insegnanti a dire ai nostri allievi ‘dovete essere umili e rispettarvi, lavorare sodo per l’altro’ ma è il teatro che, senza parole, lo richiede.

E allora, si, credo che il teatro ci ‘costringa’ alla comunicazione, alla lentezza e al sentirci parte di un ‘noi’.